Normalmente ho uno stomaco di ferro, digerisco anche i sassi e non vomito quasi mai - solitamente solo per colpa di qualche virus.
Normalmente, inoltre, la mia temperatura sta ben al di sotto dei 37°C: sono celebre per le mie temperature insolitamente basse, piuttosto che per la mia febbre. Quando però mi sale, non si parla di meno di 38,5-39°C. Da lì in su. L'ultima volta che ho avuto la febbre è stato quando mi hanno ricoverato per broncopolmonite, ormai più di dieci anni fa.
Poi sono andata in Turchia.
Un posto molto bello, verde di palme, oleandri, bouganville e altra vegetazione mediterranea, vicino a una spiaggia pulita di sabbia e ghiaia, con un bel mare azzurro che rifletteva un cielo quasi sempre terso in cui splendeva implacabile il sole.
La mattina mi svegliava il canto del gallo, che seguiva quello del muezzin della più vicina moschea.
Una sera particolarmente afosa sono andata a dormire sentendomi un po' affannata.
Probabilmente è il caldo, non ci sono abituata e nemmeno mi ci trovo tanto bene.
Poi però vado in bagno e penso che mi sento appesantita,
chissà se riesco a vomitare un pochino e a liberarmi lo stomaco? Con poche speranze di riuscirci, perché l'azione del rimettere mi sconquassa fisicamente, mi fa malissimo e istintivamente cerco di resistere. E invece mi rivolto da dentro a fuori nel corso di una notte in cui, dulcis in fundo, finisco talmente prostrata da ritrovarmi svenuta sul pavimento freddo del bagno, con dolori lancinanti dappertutto - chissà dove e contro cosa ho sbattuto cadendo.
È mattina e decido di consultare il medico del villaggio vacanze, che mi misura la pressione e capisce perché faccio fatica a stare in piedi e a tenere gli occhi aperti, poi ascolta tutti i miei guai e li comprende grazie a un'interprete, e infine mi consiglia, spalleggiato da ben due diverse interpreti in collegamento diretto dall'ospedale, che è meglio se vado a farmi visitare lì.
Io a quel punto non so più niente, non capisco più niente, mi sento sporca, appicicatticcia, puzzolente, debole, dolorante dappertutto, vorrei stendermi e dormire ma anche sdraiarmi mi procura fitte atroci a una spalla e alle gambe, non ho più sensibilità nelle mani e penso che forse dovrei vomitare ancora, quindi anche se mi sento bruciare dalla sete non voglio bere.
Lascio che mi carichino su un'ambulanza, soffro per l'intero tragitto e quando vogliono farmi scendere sono sicura che non ce la farò.
Mi sistemano in una sedia a rotelle e mi presentano le due interpreti, qualcuno mi misura la pressione (ancora infima) e la febbre (38,5°C) mentre a me viene da piangere e mi sento stupida.
Dopo un'ecografia dalla quale appuro che non ho né bambini né tumori al mio interno, mi propongono il ricovero. Vorrei solo che mi facessero dormire, ho paura di separarmi da M che mi ha accompagnato fin lì: cosa farò io, da sola, in un ospedale turco, con le interpreti che tra poche ore smontano (è sabato mattina), senza un cambio di vestiti, un libro, uno spazzolino da denti... E poi: che cosa mi sta succedendo? E se dico di no, torno al villaggio e continuo a stare male? Se invece resto qui, cosa mi faranno? Se me lo hanno proposto, presumo abbiano in mente qualcosa. Quindi, appurato che l'assicurazione pagherà le mie cure, accetto il ricovero.
Non sto mai male, ma quando capita faccio le cose fino in fondo.
M compila tutte le mie scartoffie e riesce a procurarmi l'unica cosa della quale sembra davvero impossibile che io possa fare a meno nel periodo, pur breve, che mi si prospetta davanti: il liquido per conservare le lenti a contatto, che al momento indosso. Non posso certo tenerle su per giorni a fila, e se le togliessi senza avere dove e come conservarle non vedrei a un palmo dal naso da quell'istante in poi.
Nel frattempo mi portano da mangiare e dell'acqua. Desiderio di mangiare assolutamente assente: avanzo tutto e mi limito a sorseggiare timidamente dalla bottiglietta, con il terrore di scatenare l'inferno.
Mi somministrano qualcosa per bocca, mi attaccano due flebo e mi fanno tre o quattro iniezioni. Comincio a pensare che il ricovero abbia più senso del previsto.
Poi, grazie al cielo, mi addormento.
Dormo tutto il resto della giornata, svegliata solo dalle infermiere che mi cambiano la flebo, mi fanno altre iniezioni e mi somministrano altri medicinali.
Verso sera qualcuno mi porta una scodella di zuppa, che mangio il più lentamente possibile. Poi spengo la luce e mi rimetto a dormire.
Dormo ancora per tutta la notte, di tanto in tanto riappare un'infermiera per le solite operazioni: flebo, iniezioni, medicine.
La mattina mi sembra di stare un po' meglio, mi portano un tè e per un paio d'ore mi staccano le flebo. Mi sento ancora debolissima, ma provo a fare qualche passo per vedere dove sono. C'è poco, il reparto è piccolo: ci sono donne, mamme e bambini.
Torno in camera, comincio ad annoiarmi e mi mancano spazzolino, dentifricio, saponetta e un cambio di vestiti. Sono ancora con i calzoncini e la maglietta troppo larga indossati il giorno prima in fretta. Non ho neppure il reggiseno, perché facevo fatica a respirare e mi stringeva troppo.
Le gambe non mi fanno più male, la spalla invece ancora un po', dipende come la muovo. Lo stomaco sembra tranquillo.
Accendo la tv, ma ci sono solo canali turchi, salvo un paio: uno tedesco e l'altro inglese, ma manca l'audio e dopo un po' mi stufo di guardare le immagini.
Arriva il pranzo e appena sento il profumo della zuppa di funghi quasi mi commuovo! E di fianco c'è una grossa scodella piena di yogurt, che adoro. Spazzolo tutto e mi rimetto a letto, pensando,
chissà se dimettono la domenica? Chissà se riesco a far capire a qualcuno che ho voglia di andarmene?
La pausa senza flebo è finita, me ne riattaccano un'altra, mi fanno ancora un paio di iniezioni, mi danno altre medicine e via.
Poi arriva il medico e chiama l'interprete per farmi dire che, se me la sento, posso andare a casa. Mi sento ancora molto debole, la pressione è salita un po' ma non è ancora decente, però la febbre è scesa e io mi annoio da morire, quindi accetto la proposta di dimissione.
Il dottore mi compila una prescrizione con i medicinali che devo andare avanti a prendere, io raccatto le mie poche cose (documenti e liquido per lenti a contatto) e affronto il viaggio di ritorno, che non ho idea di come compiere.
All'uscita fatico a intendermi con la gentilissima ragazza dietro al bancone: vuole che paghi il ricovero e le cure, ma non ho soldi con me e pensavo che avrebbero girato la fattura direttamente all'assicurazione.
Cerco di chiamare M al villaggio, ma non riesco a mettermi in comunicazione con lui. Per una combinazione fortunata, cinque minuti dopo è lui a chiamare l'ospedale per parlare con me, così mi spiega come fare a tornare al villaggio: non sembra un percorso agevole, e infatti per due volte mi suggerisce il taxi.
Ancora non capisco cosa devo fare per il conto: vogliono che qualcuno venga a prendermi con i soldi? O vogliono che io vada a prenderli e poi ritorni? In entrambi i casi l'impresa mi appare monumentale, sono davanti a questo bancone da quasi un'ora, non ho capito cosa fare e sto ricominciando a sentirmi debole.
Da fuori entra un caldo insopportabile. Entra anche una giovane donna, la pelle ambrata, i capelli scuri legati in una grossa treccia sotto al cappellino della divisa di guardia. Ha occhi scuri e buoni. Parla qualche parola di tedesco e, grazie a lei, riesco finalmente a districarmi e capire cosa fare: un autista dell'ospedale mi accompagnerà al villaggio con un lettore di carte di credito, e potrò pagare lì, senza tornare indietro.
Mentre la ragazza dietro al bancone richiama il numero del villaggio perché io possa comunicare a M il mio destino, la guardia mi confida di aver studiato un po' di tedesco a scuola, anche se ormai non se lo ricorda molto bene, e quasi si scusa perché invece l'inglese proprio non lo parla. Le sorrido e confesso che in fondo io non parlo il turco, la sua lingua e la lingua del posto in cui sono venuta in vacanza. Mi osserva con uno sguardo gentile e sorpreso.
Niente turco? Neanche una parola? Mi vergogno ad ammettere che è così, e allora lei me ne regala una. Mi dice,
Tamam.
Tamam?, ripeto. Annuisce:
Tamam. Ma cosa vuol dire? Vuol dire
okay, va tutto bene.
Tamam? mi chiede ancora con gentilezza.
Tamam, rispondo sorridendo.
Poi sparisce, torna fuori a fare i suoi giri di guardia, e non la vedo più.
Penserò a lei solo nei giorni seguenti, ai suoi occhi gentili e rassicuranti in un momento in cui mi sentivo persa. Mi spiace non aver avuto la prontezza di spirito per ringraziarla per il suo aiuto, per le sue parole, per la sua gentilezza.
Sono tornata al villaggio, ho pagato il conto dell'ospedale e ho passato i giorni seguenti a dormire, mangiare riso e yogurt e stare a mollo nell'acqua quando il caldo si faceva troppo insopportabile. Per qualche giorno ancora non sono riuscita a muovere la spalla abbastanza da nuotare, quindi facevo coppia con una signora anziana e rugosa con problemi alle anche, che si sedeva a bordo piscina dall'altra parte rispetto a me.
Entro la settimana ho finito di prendere le medicine, ormai il mio stomaco sta bene, non ci sono strascichi, e l'unica cosa che davvero mi rimane di quell'esperienza è:
Tamam.